Tasse e qualità della classe politica

Impazza in questi giorni la discussione sull’IMU e sulla sua abolizione, come preannunciato da Renzi durante l’Assemblea del Pd. Una discussione che ha visto la più tradizionale divisione in due del centrosinistra, fra chi ritiene sacrosanto il taglio di questa tassa e chi la considera un errore e un’idea di destra. A me entrare in questa diatriba interessa praticamente nulla, però mi incuriosisce di più dare un’occhiata a due sondaggi della SWG, uno dei quali parla anche di tasse.

  
Il primo dato in classifica è quello della riduzione delle tasse. E qui si innesta la questione sull’IMU, una delle tasse più odiate dalle persone ma che è sempre molto difficile e complicato toccare. È vero che a causa di un catasto non ancora perfettamente aggiornato e a causa di un sistema di calcolo della rendita catastale della casa un po’ complesso questa tassa risulta spesso con importi un po’ sballati, ma la sua esistenza è una delle poche fonti di introiti per i comuni, sempre più strangolati dai tagli dei trasferimenti dallo Stato centrale. Allora, anziché abolirla, non si potrebbe parlare di razionalizzarla, di renderla più omogenea alla realtà?

Del resto è ciò che genericamente chiedono i cittadini: ridurre le tasse. E quale modo migliore esiste per ridurre le tasse che andare a razionalizzare e semplificare quelle esistenti, rivedere e razionalizzare la selva di sgravi e riduzioni spesso usate impropriamente per abbassarsi il costo di una tassa, in modo poi da poterle ridurre in modo sensato? Personalmente non vedo di buon occhio il parlare di abolire una specifica tassa, ma sarei più contento se si parlasse di una organica e complessiva riforma del fisco, sia nella parte che riguarda la tassazione sul patrimonio che nella parte che riguarda la tassazione sulle persone. È per me francamente avvilente guardare la mia busta paga ogni mese e leggervi trattenute per quasi 500 euro, su uno stipendio lordo di circa 1.800.

Ma anche altre cose emergono dal sondaggio. Maggiori aiuti per i poveri, quindi un più esteso welfare che magari consideri anche l’introduzione del tanto citato reddito minimo garantito (da non confondere col reddito di cittadinanza che è una cosa diversa). Meno monopoli e più spazio alla libera iniziativa delle persone, che fa il paio con chi chiede di poter dare maggior mano libera alle imprese, sebbene già oggi c’è chi si lamenta che le imprese abbiano già fin troppe libertà. Fa da contraltare chi invece chiede un maggior intervento dello Stato nell’economia, soprattutto a causa di questa perdurante situazione di crisi che ha via via fatto regredire gli investimenti statali. C’è anche poi chi chiede un maggior ruolo proattivo dei sindacati stringendoci maggiori accordi, ma aggiungo io che i sindacati dovrebbero a loro volta svecchiarsi è riformarsi, perché sempre più persone non si sentono più rappresentati da loro.

  
E come si può ottenere tutto questo? Alla prima voce c’è la formazione di una classe politica fatta dai migliori. È la famosa meritocrazia di renziana memoria, quella su cui Renzi ha insistito per tutta la campagna delle primarie del 2012 e del 2013, quella che avrebbe dovuto cambiare radicalmente pelle al suo partito a partire dalla sua elezione a segretario. Una mutazione che però è stata soltanto avviata e interrotta subito dopo, in nome di un più classico realismo politico, che ha portato lo stesso Renzi a non apparire più come il giovane rottamatore ma come il giovane burocrate equilibrista. Dov’è finita questa rottamazione? Dov’è finita questa ondata di qualità promessa dal segretario/premier?

A seguire le persone chiedono più partecipazione. Chiedono di potersi esprimere su un maggior numero di questioni, chiedono di poter essere coinvolte in più processi decisionali, chiedono di poter dire la loro su tutta una serie di questioni che li riguardano da vicino. Anche qui ciclicamente i partiti politici promettono di coinvolgere maggiormente i loro iscritti, promesse che restano lettera morta con una regolarità quasi imbarazzante, ad eccezione del Movimento 5 Stelle che in qualche modo prova ad allargare la partecipazioni facendo votare online idee e proposte di legge.

E poi c’è chi chiede pensieri lunghi e grandi idee. In pratica si chiede ai nostri politici di smetterla di guardare a quegli orizzonti brevi che possono essere le prossime elezioni, ma di volgere lo sguardo verso obiettivi più lontano, se vogliamo apparentemente utopici, quelli che determinano la diversità fra un politico e uno statista. Perché è abbastanza facile essere un politico ma è tremendamente difficile comportarsi da statista. Un comportamento da statista, oggi, sarebbe quello di puntare la barra verso quella reale Unione Europea che significherebbe non solo unione monetaria, ma anche economica, fiscale, politica, di difesa: praticamente gli Stati Uniti d’Europa. Ma di statisti all’orizzonte se ne vedono ben pochi.

Ultima notazione per le ultime due voci di questo secondo sondaggio. Parlano della necessità di meno democrazia e più decisionismo e anche di meno ruolo dei partiti e più potere ai leader. Ora, se la seconda voce può essere ricondotta nell’alveo democratico delle repubbliche presidenziali, dove i leader detengono la maggior parte dei poteri a discapito dei parlamenti (e quindi dei partiti), altrettanto non si può dire della prima voce, quella che auspica testualmente meno democrazia e più decisionismo. Lo ritengo uno dei frutti avvelenati del leaderismo, una spinta in espansione figlia anche della situazione di crisi e delle crescenti intolleranze fra le persone. Una intolleranza che possiamo osservare nel muro che sta costruendo l’Ungheria, nella spocchia di una parte della classe politica tedesca, nel l’odio riversato sui tedeschi, in quei Paesi europei che trattano come minorati gli altri Paesi in crisi, in quei Paesi che caccerebbero quei migranti che scappano da guerra e violenza. È come una spirale negativa che continua ad essere alimentata da alcuni per fini politici, ma che inizia a dare anche preoccupanti segni di autoalimentazione, primo indicativo segnale che la situazione sta rischiando di sfuggire di mano.

Invocare meno democrazia non è la soluzione per i problemi di rappresentanza che abbiamo oggi. Semmai dovrebbe essere il contrario: dovremmo chiedere più rappresentanza, più coinvolgimento, più democrazia. Viviamo in un periodo storico delicato, dove molte tensioni che pensavano ormai sepolte stanno riemergendo e dove termini come solidarietà e sussidiarietà sono sempre più sconosciuti. E ritorniamo a parlare della qualità della classe politica, punto imprescindibile per cercare di migliorare la situazione. Io sono fra quelli che credette alla promessa della rottamazione renziana, oggi non vorrei dovermi rassegnare ad aver creduto nell’ennesima utopia svanita nel nulla.



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6 replies

  1. Più decisionismo e meno democrazie è molto inquietante come concetto 😦

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